Temendo che a causa del declino dei matrimoni religiosi, a causa del proliferare delle "libere unioni", a causa della pubblicità a favore dei profilattici connessa al virus dell'Aids, le opinioni della chiesa sul piano etico-sessuale possano perdere molto del loro senso, in quanto è sempre più difficile sostenere l'uso dei metodi cosiddetti "naturali" al cospetto di quanti han bisogno o vogliono usarne di altro tipo, la destra clericale è arrivata ad equiparare la contraccezione all'odio per la vita e quindi a una forma di omicidio preterintenzionale.
Non solo cioè si continua ad affermare che non c'è più differenza fra aborto e contraccezione (da anni la chiesa cattolica è convinta che l'aborto sia usato, coscientemente, anche per regolamentare le nascite), ma ora si arriva persino a identificare la "pillola" col "delitto". Dal peccato di "egoismo sessuale", l'individuo che utilizza metodi di controllo "non cattolici", sarebbe passato al peccato contro la società, contro l'umanità intera.
Tutti sanno ormai però che la querelle non si pone tanto fra metodi "naturali" e metodi "artificiali", quanto piuttosto fra metodi artificiali cattolici e metodi artificiali laici. La vera differenza cioè è fra metodi più o meno sicuri, più o meno efficienti, oppure, al massimo, fra metodi più o meno nocivi per la salute. E' la chiesa che vuole trasformare questa differenza tecnica in una questione ideologica.
L'unico vero metodo "naturale" è, a ben guardare, quello che non ha "metodo", cioè quello che non si pone neppure il problema di regolamentare le nascite. E' il metodo dell'uomo primitivo o comunque dell'uomo che ha vissuto nelle società pre-schiaviste.
Ora, né Billings (per gli sposi), né la continenza (per i tossicomani, gli omosessuali, i malati di Aids e, di nuovo, per gli sposi) possono essere considerati metodi "naturali". Il Billings peraltro è talmente cervellotico e arbitrario che, anche volendo, non lo si potrebbe applicare, e chi lo ha fatto ha capito che non è molto più sicuro dell'Ogino-Knaus. Considerare poi "naturale" la continenza quando persino 80.000 preti cattolici sparsi in tutto il mondo hanno deciso di rinunciarvi sposandosi, ha davvero poco senso.
Da questo punto di vista sostenere che solo il metodo "naturale" garantisce, di per sé, la moralità dell'atto sessuale, è come fare professione di aperto fariseismo. L'uso dei metodi contraccettivi moderni, cattolici o laici, non favorisce di per sé né la moralità né l'immoralità del rapporto sessuale, in quanto sia l'una che l'altra stanno, semmai, prima e dopo l'atto sessuale e non nel "mezzo".
Esiste forse un moralista accreditato in grado di spiegare la differenza che passa, a livello sessuale, fra l'atto con un partner occasionale e quello con uno fisso? Se ci fosse una qualche significativa differenza sul piano tecnico, materiale, fisico, perché allora sostenere che il tradimento può compiersi già sul piano dell'intenzionalità?
Se questo è vero, dovrebbe apparire oggi (grazie alla tecnica) come una logica conseguenza la possibilità di separare, nell'ambito del matrimonio o del rapporto di coppia, l'atto unitivo da quello procreativo. E' assurdo che la moralità del rapporto possa essere garantita solo dalla disponibilità alla procreazione. Con un ragionamento del genere si potrebbe arrivare a giustificare (e molti cattolici integralisti lo fanno) la mostruosa idea che l'aborto è, in ultima istanza, migliore della contraccezione, o che una fecondazione artificiale sia da preferirsi a una con attività sessuale.
I fatti, in realtà, dimostrano proprio il contrario: laddove non esiste "coscienza di sé", la procreazione rischia solo d'essere un atto irresponsabile. Ma su questo è difficile convincere una chiesa che considera come una bestemmia persino l'ipotesi di sterilizzare le coppie di handicappati che sicuramente non potrebbero fare figli sani (come noto, la chiesa chiede l'astinenza anche a queste persone). Salvo poi contraddirsi quando obbliga le suore in missione a prendere la pillola per evitare, in caso di stupro, che abortiscano.
Oggi possiamo tranquillamente affermare che non la chiesa ha formulato il concetto di "paternità responsabile", ma la scienza, che ha permesso all'uomo e alla donna di sottrarsi alle leggi spontanee della natura. Certo i mezzi antifecondativi possono essere usati per scopi moralmente illeciti, ma forse chi usa i cosiddetti metodi "naturali" della chiesa romana può essere considerato, solo per questo fatto, moralmente irreprensibile? Forse la moralità della persona può essere misurata in proporzione al numero di figli ch'essa mette al mondo? La vita di per sé è forse un valore o la nascita di un figlio una benedizione quando l'ambiente che l'accoglie è invivibile?
Perché la chiesa non si limita a impostare il discorso in termini sociali o sociologici, utili per un dibattito politico e culturale? Perché non arrivare a dire che l'uso di metodi artificiali (di qualunque genere) riflette un tipo di organizzazione sociale che solo apparentemente si dimostra più efficiente e sicura? Per quale ragione dobbiamo oggi considerare la procreazione non un fenomeno naturale (di tutta la società), ma un nuovo problema da affrontare (per la singola coppia)? I metodi naturali (quelli "senza metodo") non riflettevano forse un'organizzazione sociale con minori conflitti antagonistici? Davvero l'uomo primitivo aveva a che fare con una natura cieca e irrazionale? o non è forse irrazionale quella scienza che considera la regolazione delle nascite un sicuro indice di progresso? Che futuro ha un paese senza ricambio generazionale?
E' comunque davvero singolare che una chiesa "garante di tutti i diritti umani" (come pretende di essere) non sia capace di considerare i motivi per cui oggi le coppie fanno meno figli, o i motivi per cui si sceglie la soluzione drammatica dell'aborto. Tutte le difficoltà materiali (alloggi, stipendi, servizi ... ), tutte le scelte e le condizioni professionali (donne che lavorano, mansioni molto faticose o impegnative ... ) vengono ridotte a un nulla di fronte alla vera giustificazione del controllo delle nascite, e cioè l'egoismo, la depravazione morale. Egoismo e depravazione alimentati -dice la chiesa- dalle multinazionali della "pillola", che con questa e altri mezzi realizzano enormi profitti.
In realtà è quanto mai conveniente far sentire gli uomini incapaci di qualsiasi bene, bisognosi d'essere tenuti a bada come scolaretti indisciplinati... Così essi possono evitare di assumersi una qualunque responsabilità, possono tranquillamente delegare ad altri scelte e decisioni fondamentali per la loro stessa esistenza.
Gli esponenti più retrivi del cattolicesimo romano spesso tendono a considerare l'Aids come una sorta di castigo divino per omosessuali e drogati e per chiunque viva una sessualità disordinata, libertina. Costoro dovranno inoltre avere sulla coscienza il destino di tutti quelli che, senza colpa morale, sono rimasti contagiati a causa loro.
L'identificazione di malattia e colpa, del tutto estranea ai vangeli, è patrimonio di quella cultura veterotestamentaria che il cristianesimo, considerando la malattia come un'occasione per il manifestarsi della "grazia divina" (oggi diremmo della "creatività dell'uomo") e non più come un castigo o un'inspiegabile condanna, ha creduto di poter agevolmente superare. Perché dunque dimenticarsi, e da parte di alti esponenti ecclesiastici, di una verità da tempo acquisita dalla mentalità comune?
Il fatto è la chiesa ha bisogno di dimostrare che la "grazia di dio" c'è, altrimenti chi se ne accorgerebbe? Ovvero, quando non le riesce di dimostrarlo positivamente, attraverso le proprie "buone azioni", ha bisogno di farlo negativamente, accusando non se stessa, ma la società laica, che con i suoi "vizi" impedisce alla "grazia" di manifestarsi. E fa questo naturalmente con la pochezza degli strumenti interpretativi di cui dispone.
Essendo incapace di andare al di là di una pura e semplice ermeneutica moralistica e soggettivistica del fenomeno Aids, e sapendo bene che con gli interventi meramente caritativi o assistenzialistici non si risolvono i problemi sociali più di tanto (specie in una società complessa come quella borghese), l'omosessualità e la tossicodipendenza le diventano particolarmente comode per riaffermare la triste equazione di malattia e colpa, nonché l'unica alternativa possibile: l'astinenza sessuale nella fede cristiana.
Là dove non può affermarsi per meriti propri, la chiesa mira a farlo con i demeriti altrui. Lo schema è di tipo farisaico e lo si utilizza nei periodi di caduta della credibilità: ad ogni colpa un castigo, ad ogni castigo il tempo per non dimenticarlo; la sofferenza farà poi il resto e riavvicinerà il colpevole alla "grazia divina".
E pensare che persino gli ebrei, ad un certo punto, nel racconto del buon Giobbe, erano arrivati a mettere in dubbio la stretta identità di colpa e malattia. Per loro, così convinti dell'esistenza di Jahvè, pareva impensabile che si diventasse lebbrosi solo per una cieca fatalità: qualcosa si doveva pure aver fatto, foss'anche una colpa del parente più lontano. Jahvè non puniva forse sino alla settima generazione?
Giobbe tuttavia si convinceva poco di questi paralogismi. Lui si riteneva del tutto innocente, sapeva di non aver fatto nulla di così grave da meritarsi un castigo così grande come la lebbra. Gli fu facile, in questo senso, mandare a quel paese i tre saggi che si ostinavano a chiedergli l'esame di coscienza. E non volle nemmeno dar retta alla moglie che, vedendolo in quello stato, ancora timoroso di dio, gli aveva suggerito d'imprecarlo e di morire in pace. La sua risposta, che poi venne superpremiata dallo stesso Jahvè, fu tanto semplice quanto profonda: "Accetterò la lebbra come una prova da superare. Ho amato dio quand'ero ricco e sano, vediamo se ora ci riesco da povero e ammalato".
Consolazione forse un po' magra o un po' fatalistica, potrà pensare qualcuno. Ma si era duemillenniemezzo fa: che si pretende? Giobbe non poteva certo comportarsi come il fortunato lebbroso del vangelo di Marco che dubitò della necessità della prova, sapendo bene che il Gesù taumaturgo poteva guarirlo solo toccandolo con un dito!
Senonché, proprio come questo anonimo lebbroso non riuscì a capire che di fronte alla verità delle cose poco importa esser sani o ammalati, così oggi gli esponenti più retrivi del clero (che miracoli non ne possono fare e che in quelli della scienza non credono) non hanno scrupoli nel riconoscere la "mano di dio" nella punizione del morbo. Summa summarum, direbbe Kierkegaard: "Che s'ammazzino pure tra loro!"
Il clamoroso successo del libro di Uta Ranke-Heinemann, Eunuchi per il regno dei cieli (ed. Rizzoli 1990), può essere spiegato col fatto che per la prima volta in Italia qualcuno (in questo caso una donna) ha avuto il coraggio di analizzare, con grande pazienza e serietà, duemila anni di storia della morale sessuale cattolica. Prima di lei (stando almeno alle pubblicazioni in lingua italiana) lo aveva fatto, ma con esclusivo riferimento ai "culti fallici" nelle diverse religioni, H. Cutner, Breve storia del sesso nelle religioni, ed. Longanesi. Né va dimenticata la Storia della sessualità di Foucault. Un contributo interessante ma settoriale era stato quello di M. Pilosu, La donna, la lussuria e la chiesa nel Medioevo, ed. ECIG.
Paradossalmente il "piacere" offerto dalla lettura del libro di Uta sta proprio nelle continue citazioni di espressioni patristiche, conciliari, di teologi medievali, canonisti, giuristi, dei vari moralisti di ogni tempo...: una vera carrellata di pregiudizi e assurdità, che praticamente oggi si commentano da sole. L'Autrice infatti non offre riflessioni particolarmente originali: da almeno 20 anni il movimento femminista ha già abbondantemente acquisito i principi fondamentali della critica alla morale sessuale cattolica. Bisogna tuttavia riconoscerle l'immane lavoro compiuto (per il quale peraltro ha perduto la cattedra): un lavoro tanto vasto sul piano storico quanto rigoroso su quello filologico, e difficilmente contestabile su quello etico.
L'unico rilievo che mi sentirei di fare è che di tanto in tanto si ha l'impressione che l'Autrice voglia lasciar credere (dominata forse dalla polemica) che un qualunque comportamento sessuale, sostenuto ovviamente dall'amore e dalla libertà personale, non può avere alcuna conseguenza sull'individuo. In realtà è difficile pensare che un'intensa attività sessuale non abbia effetti collaterali sulla persona. E' vero: per vietare questo "attivismo" i teologi han detto cose a dir poco riprovevoli, perché legati sostanzialmente a un'ideologia pessimista che individuava il peccato nel piacere in quanto tale. Ma possiamo dire con certezza, sulla base dei dati scientifici disponibili, che una qualunque attività sessuale è lecita se suffragata dal sentimento dell'amore? Indirettamente, contro la loro stessa volontà, non possono forse aver detto, quei teologi, alcune cose vere, che meriterebbero di trovare una qualche conferma da un'analisi scientifica obiettiva? Oppure la scienza, scendendo in un campo così spinoso, dove al giorno d'oggi nessuno ha più intenzione di farsi mettere in crisi, ha timore di contraddire l'uso-facile, consumistico con cui oggi la gioventù e non solo la gioventù, sollecitata dai media, gestisce la sfera della sessualità?
Non fu forse Freud a dire che un'autolimitazione della sessualità porta a una sublimazione artistica o intellettuale? E' così inverosimile quell'idea di Berdjaev secondo cui il Rinascimento fu possibile anche perché nel Medioevo si erano concentrate enormi energie? Certo, il Medioevo non permise all'uomo di manifestarle, e il Rinascimento lo fece in antitesi al Medioevo. Ma lo storico deve andare al di là dei limiti assurdi che gli uomini si impongono a causa delle loro ideologie: deve cioè scoprire il vero anche nel falso.
Difficilmente comunque un cattolico potrebbe rimanere tale dopo aver letto un libro del genere: in tal senso il contributo dell'Autrice è stato davvero grande. Nondimeno stupisce che, invece di maturare idee ateistiche, la suddetta sia passata dalla confessione luterana a quella cattolica.
Quando sessualità vuol dire soltanto "riproduzione", quando cioè in ogni atto sessuale esiste la possibilità di una fecondazione, e quando la riproduzione è una fonte di ricchezza per l'intera collettività, che così è in grado di espandersi e di fortificarsi, posto che vi siano sufficienti risorse per la sopravvivenza del collettivo, storicamente non viene mai usata la sessualità in chiave etico-religiosa. L'unico divieto è quello dell'incesto, di cui si dovettero scoprire molto facilmente gli inconvenienti fisiologici.
La sessualità, per milioni di anni, venne considerata come un semplice strumento tecnico per ottenere un fine pratico: la riproduzione della specie. Probabilmente anzi in epoca preistorica la sessualità veniva usata come tra gli animali, unicamente a fini riproduttivi, e molto probabilmente dipendeva dalla ricettività o disponibilità della femmina, che doveva portarne l'onere maggiore.
Non potevano esserci "perversioni sessuali", poiché una cosa del genere presume già la separazione della sessualità dalla riproduzione. La religione nasce o subentra quando esiste già la possibilità di compiere questa separazione, la quale è stata possibile soltanto dopo che l'uomo ha assunto un atteggiamento di superiorità nei confronti della donna, cioè quando si è fatto valere il principio maschile della forza su quello femminile della debolezza.
Tale prevaricazione è stata la conseguenza di una scissione avvenuta nell'uomo stesso: il maschio che non sa più chi è (perché ha rotto il suo rapporto con la natura e comincia a vedere il proprio simile come un rivale), pensa che un modo per "ritrovarsi" sia quello di dominare la donna.
La sessualità viene slegata dalla riproduzione con la nascita delle città, col dominio delle città sulla campagna, dei poteri intellettuali su quelli manuali, del commercio-artigianato sull'agricoltura-allevamento e così via. Se si stacca la sessualità dalla riproduzione, la donna diventa un mero oggetto sessuale per il piacere dell'uomo (piacere fisico o economico, a seconda del tipo di sfruttamento).
La fine della preistoria ha comportato la fine dell'uguaglianza dei sessi e l'inizio dell'uso strumentale della differenza di genere. L'eccessiva importanza erotica che si dà alla sessualità è frutto di un'alienazione dei rapporti sociali, è la conseguenza del prevalere dell'individualismo sul collettivismo.
La religione (in particolare quella cattolico-romana, che pretende una certa visibilità politica) interviene proprio su questa alienazione, appropriandosene, per poter esercitare un controllo sulle persone. Essa obbliga ad associare sessualità a riproduzione senza far nulla per creare i presupposti che rendono quell'unità un fatto naturale, spontaneo, cioè senza far nulla per superare gli ostacoli che impediscono di associare in maniera naturale sessualità a riproduzione o che impediscono di considerare la sessualità soltanto come uno strumento di piacere.
Da un lato quindi la religione conferma l'individualismo delle società antagonistiche, dall'altro invece, al fine di crearsi un proprio spazio di legittimità, associa la sessualità fine a se stessa alla colpa. In tal modo fa sentire in colpa chi, in quell'antagonismo sociale, subisce la volontà del più forte. Non solo, ma anche tra i più deboli, la religione fa sentire la donna più colpevole dell'uomo.
L'ipocrisia della religione sta proprio in questo, che, pur partendo da un'istanza giusta, quella di colpevolizzare la sessualità fine a se stessa, se ne serve per confermare le contraddizioni sociali che la rendono inevitabile.
La psicanalisi freudiana è intervenuta proprio su questa ipocrisia, facendo in modo che il credente (sessualmente frustrato) cominciasse a vivere la sessualità separata dalla riproduzione senza alcun senso di colpa, cioè liberandosi del proprio rapporto di soggezione nei confronti della chiesa. Anch'essa, sul versante opposto a quello della fede, ha contribuito a giustificare l'antagonismo sociale. Ha semplicemente diminuito il peso di una contraddizione, abbassando il tasso di moralità. E tale operazione intellettuale è passata alla storia come una forma di "emancipazione borghese".